lunedì 21 aprile 2014

On the road: da Luanda a Namibe passando per Lubango e Huambo


17 Aprile 6.30 am, partenza da Luanda, destinazione Lubango, km 1150.

In Africa ciò che conta non è arrivare, è viaggiare. Andare da un punto a un altro scoprendo cosa c’è in mezzo. Gli spazi sono sconfinati e i paesaggi variano da zona a zona. Quando si arriva si sente subito il bisogno di ripartire, per continuare, perché qui c’è sempre un oltre da percorrere.

Decidiamo di andare da Luanda al Namibe, giù nel desertico Sud dell’Angola, passando per alcune cittadine e arrivando più in alto che possiamo, sul Planalto central e più a sud, fino alle zone aride della provincia di Namibe, al confine con la Namibia.


Le nostre mete sono varie. Passeremo sulla Fenda da Tundavala, dove milioni di anni fa il continente americano si è staccato da quello africano. Percorreremo la Serra da Leba, la tortuosa strada che scende da 2000 a 1000 m dove finisce l’altopiano centrale dell’Angola, considerato uno dei luoghi più scenografici del Paese. Incontreremo le popolazioni Hiba, che vivono ancora come migliaia di anni fa, dove le donne indossano bracciali sui polsi e sulle caviglie e il canone di bellezza femminile è il seno lungo schiacciato al corpo da file di perline. Cercheremo la Welwitschia mirabilis pianta endemica del sud dell’Angola e della Namibia che cresce di un millimetro l’anno e vive circa 1000 anni.


Torneremo passando per Huambo, città dove le aspre battaglie dell’Unita per tenersi la zona ricca di diamanti pluviali, hanno lasciato segni ancora visibile sulle facciate dei palazzi crivellati di colpi di artiglieria. In tutto questo vivremo d’incontri e imprevisti che sono l’essenza stessa del viaggio, ciò che rende un percorso unico, personale e indimenticabile.


La partenza è precipitosa. La sveglia si scorda di suonare e in 20 minuti raggiungiamo il posto di incontro con la seconda macchina che ci accompagnerà lungo questo tragitto. Nelle acque paludose di Flamingo, dopo Benfica, incontriamo il 1° gruppo di fenicotteri rosa e il loro colore è esaltato dal sole del primo mattino. Passiamo presto il fiume Bengo fra campi di papiri che sembrano ciuffi di capelli verdi e arriviamo a Porto Hamboim dopo 3 ore di viaggio. La luce è quella giusta per restare incantati dal blu profondo del mare e dal verde delle collinette reso più intenso dalle recenti piogge.


Porto Hamboim è un tranquillo paese di case di blocchetti e tetti di paglia, caprette arrampicate sui punti spioventi delle colline e a farci compagnia ci sono le motorette che sfrecciano da una parte all’altra della baia. Passiamo poco dopo il Rio Keve e arriviamo a Sumbe dove incontriamo una colonna di macchine destinate al Censimento 2014 che qui in Angola partirà il prossimo 15 maggio per fare la conta delle presenze nel paese e valutare le condizioni delle abitazioni.
Poco fuori Sumbe passiamo sul fiume Kikombe in un punto dove le acque scorrono fra alte gole rosse e in un’ansa del rio si fermano le barche cariche di caschi di banane destinate a Luanda, da qui in poi trasportate su gomma.


Alcune donne siedono all’ombra di un grande albero di mango e si godono il fresco. Parlano solo kimbundu, ma una di loro, giovane, che porta il nome tatuato su un avambraccio, Tè Tè, con un bimbo sulla schiena, si fa capire e prima di ripartire ci lancia un bel sorriso.

Affrnontiamo la vasta distesa fra Sumbe e Lobito con i Dire Straits come colonna sonora e sulle note di Once upon a time in the West percorriamo altri chilometri nel cuore dell’Africa e la strada, che qui è una lunga fettuccia nel verde dei bananeti e delle palme, scorre via veloce.
A Lobito arriviamo dopo che la strada si è fatta più stretta e sullo sfondo si cominciano a intravedere le alture del planalto central. La città si svolge su una serie di colline brulle e polverose, vecchie cave da cui si tirava materiale da costruzione da trasportare poi via mare o via comboio.
Le colline diradano poi su una pianura acquitrinosa passata la quale si accede a una striscia di terra, una penisola, a chiudere in parte la baia, che assomiglia alla Ilha di Luanda ma con un fascino retrò, un gusto nell’aver messo insieme le antiche case portoghesi con nuove palazzine basse e colorate, che danno a questa striscia di terra, la Restinga, un aspetto godibile.


In fondo alla penisola, al centro della rotonda, si staglia il navio Zaire, che la leggenda vuole, fu usato da un giovane Eduardo Dos Santos il 7 novembre del 1961 per scappare con un gruppo di nazionalisti angolani dai portoghesi e fomentare la rivolta che porterà poi nel 1975 alla cacciata definitiva dei colonizzatori dal Paese.
Qua ci fermiamo a mangiare al Zulu Restaurant, sulla spiaggia, dove il baccalhao alla griglia ha un sapore più buono grazie alle palme, al sole che fa brillare il mare e alla voglia di vedere fra le onde spuntare un gruppo di delfini o una balena. Il posto è così rilassante che ci perdiamo due ore. 

Occorre ripartire e Benguela la passiamo veloci, sta per fare buio e abbiamo ancora molto strada fino a Lubango. La città è bella, le costruzioni sono ancora quelle del tempo delle colonie, si respira l’aria dei tropici, le spiagge sono lunghe e bianche, ma non abbiamo tempo.


Lasciamo qui la strada costiera e ci buttiamo verso l’interno, non c’è altro modo di arrivare a Lubango. Il buio scende improvviso. Sono le 6 e 30 del pomeriggio e quello che ci aspetta sono altri 360 chilometri di strada al buio fino a Lubango, cittadina del Planalto che si trova a 1700 metri sul livello del mare.
Indimenticabile sarà la luna che di punto in bianco apparirà dal buio più pesto dietro una collina, enorme e gialla come un faro nella notte africana.
L’albergo è un miraggio alle 11 di sera e il letto una gioia per le ossa stanche. Al mattino Lubango si sveglia in un tripudio di colori. L’aria è quella frizzantina della montagna, i viali sono alberati e fioriti. Ci dirigiamo subito alla Fenda da Tundavala.


Il posto è di quelli che meritano. Sembra di essere sul tetto di un mondo senza confini. Il vento fischia e le rocce vanno giù a picco aprendo una spaccatura di 1000 metri, la ferita che ha diviso l’Africa dall’America, il resto, sotto, sono detriti sedimentati in milioni di anni. Indescrivibile!
Corriamo poi giù da queste altezza verso la provincia del Namibe e per farlo percorriamo la panoramica e impegnativa strada della Serra da Leba. Una serie di curve a gomito a picco sul vuoto circondati dagli strapiombi rossi del planato central che qui finisce tutto d’un tratto.


La voglia di proseguire ci porta fino alla cittadina di Namibe non prima di aver fatto incontri particolari. Si aggirano su queste terre aride le popolazioni Himba, che qui in Angola, dove arrivarono dalla Namibia, loro terra d’origine, sono anche detti Ovahimba. Sono pastori nomadi e ci vogliono vendere il latte delle loro bestie. Rifiutiamo ma ci accordiamo per scattare qualche foto con loro.


Resterà impresso a tutti il volto tondo e lo sguardo profondo della bimba tenuta in braccio da una giovane donna della tribù. Hanno i seni nudi, stretti da giri di perline e bracciali ai polsi e alle caviglie, sono socievoli ma quando iniziano a discutere sui soldi e due di loro hanno in mano maceti scegliamo di andare via alla svelta.

A Namibe ci fermiamo per un meritato tè caldo, un tè nel deserto, che ci appare più dolce e piacevole di sempre. Pronti per proseguire nella zona predesertica che precede il deserto del Namibe, alla ricerca dei quarzi e della Welwitscha mirabilis.


Fra il nulla di queste terre aride ridiamo alla vista della pianta i cui semi appaiono come enormi escrementi di vacca seccati dal sole. E’ già ora di tornare, tre ore di viaggio all’indietro di nuovo verso Lubango, e il tramonto ci coglie quando siamo ancora nel deserto che ora prende tutti i colori regalandoci sfondi rosa, arancioni, rossi e poi blu intensi fino al buio della notte.

La cena è a base di carne di jacarè, coccodrillo, è così buona che non ci dispiace, almeno fino al mattino successivo, quando uno lo incontreremo nel fiume fra Lubango e Huambo.

Decidiamo, in modo azzardato di cambiare strada e tornare verso Luanda passando per Huambo ma prima di Caconda ci imbattiamo in 110 chilometri di pista piena di buche dovute alle recenti piogge. Impieghiamo quattro ore sole per percorrere 80 chilometri ma saranno quelli che ci permetteranno di vedere l’Africa come ce la siamo sempre immaginata.


La terra è rossa, incontriamo solo villaggi di capanne. Non ci sono pali della luce elettrica, solo qualche raro pozzo a mano per l’acqua, attraversiamo vecchi ponti pericolanti, vediamo un coccodrillo amarello, giallo, rarissimo, sotto al fiume che attraversiamo incerti e tante motorette spinte a mano da ragazzi stanchi ma sorridenti. 


A qualcuno sfiora l’idea di fermarsi li, almeno per qualche giorno, a godersi il tempo, lo spazio, la libertà. Arriviamo a Huambo sfatti dalla fatica del corpo strattonato e sbalzato continuamente dalla strada sterrata. Mangiamo un panino e poi via, verso il passo a 2050 metri di altezza che ci riporterà verso la strada costiera quando ormai è già notte e ancora ci mancano 500 chilometri per arrivare a Luanda.


19 Aprile, 2 am, arrivo a Luanda. Si viaggiare!













2 commenti:

  1. Che nostalgia di questi viaggi meravigliosi! ma tu sai descriverli cosi bene che me li fai rivire come se il tempo non fosse mai passato. un abbraccio papà

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    1. Papà il mal d'Africa me lo hai attaccato tu! Ricordi i nostri viaggi in Niger a controllare i pozzi per l'acqua nei villaggi?

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